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LA TERRASANTA DI SAN DOMENICO: ANNO 1747


La Cappella delle Sepolture della Confraternita del SS. Rosario in Gaeta



LA TERRASANTA DI SAN DOMENICO
La Cappella delle Sepolture della Confraternita del SS. Rosario in Gaeta
Anno 1747


La Confraternita del SS. Rosario, eretta canonicamente il 4 settembre 1607, aveva il proprio oratorio nel convento di San Domenico, mentre nell’omonima chiesa avevano sede la cappella per le celebrazioni e diverse sepolture per i propri adepti.
Dalla “Platea della Venerabile Confraternita …” (1761) si legge che nel 1747, previo consenso dei Domenicani e dopo la deliberazione del pio sodalizio, venne edificata una nuova cappella funeraria sotto la sacrestia della chiesa. Il 22 ottobre 1747 il Vescovo di Gaeta, Gennaro Carmignani (1738-1770), consacrò la Terra Santa. Si accedeva alla struttura attraverso una scala dall’interno della chiesa passando nell’ambiente a destra della cappella.
Ogni anno la Confraternita eleggeva due deputati per la Terra Santa, i quali dovevano sovrintendere al rispetto delle regole, aggiornare un registro dei morti e apporre le epigrafi sulle sepolture. Il SS. Rosario aveva i sacrestani che, tra gli altri compiti, dovevano occuparsi del seppellimento dei confratelli.
A seguito delle vicissitudini dell’assedio del 1806 e dell’occupazione francese, la chiesa, il convento e la Terra Santa furono requisiti divenendo beni ad uso del governo. Nel contempo, la Confraternita si trasferì nella vicina chiesa di San Tommaso Apostolo, dove tutt’ora risiede.
L’accesso alla Terra Santa dalla chiesa venne murato e la cappella rimase isolata e quindi non venne ne demolita ne depredata. Nel 1853 il Priore della Confraternita avviò un’azione verso il re Ferdinando II per riacquisire la proprietà della Terra Santa in funzione delle enormi spese sostenute per la realizzazione del luogo di sepoltura. Il 21 ottobre 1853 il Genio scrive al priore restituendo la Terra Santa alla Confraternita. Nel giro di pochi giorni i confratelli si adoperarono per la costruzione della scala e il 2 novembre 1853 venne celebrata presso la cappella la festa dei morti. Negli anni successivi la cappella venne sempre officiata e il 4 novembre 1920, previa approvazione diocesana, il Priore della Congrega scrisse al Padre Generale dei Frati Minori a Roma per poter installare le 14 stazioni della Via Crucis all’interno della Terra Santa con relative indulgenze. Oggi di quelle formelle resta traccia in alcune crocette lignee presenti sui muri della cappella. Purtroppo, dopo qualche anno, la cappella e il giardino vennero utilizzati a vario titolo da privati, oltre a subire vilipendi ed espoliazioni. Negli ultimi tempi, grazie all’interessamento del Priore Renato Satriano, la struttura è stata inserita in un progetto di recupero che vede oggi un primo traguardo.
All’interno, tra gli oltre settanta teschi esposti, ne figurano alcuni con una lamina metallica a forma di croce applicata sulla parte frontale, probabilmente il segno distintivo degli ecclesiastici. La novità maggiormente interessante dei lavori di pulizia dell’ambiente è la riscoperta di un’epigrafe del 1861 posta su una teca in legno probabilmente da riferirsi ad una mummia di bambino oggi scomparsa.
L’iscrizione, dipinta sul coperchio della teca, è rimasta obliterata sotto uno spesso strato di polvere e sottili calcinacci. Secondo una tradizione orale, il corpicino mummificato posto all’interno della teca veniva “accudito” dai familiari, che periodicamente ne rinnovavano anche i vestiti. Da qualche decennio la piccola mummia è scomparsa, ma nella teca sono rimasti una serie di oggetti: un cuscino imbottito di foglie, una cuffia con il bordo ricamato, una ghirlanda di fiori finti per i capelli, vari elementi dell’abitino e le calze.
L’iscrizione sul coperchio della teca fa riferimento a Peppino Conte, figlio di Vincenzo e Luigia Sasso, morto il 12 febbraio 1861, il giorno prima della resa di Gaeta. Volendo fare un riscontro archivistico, non si conservano all’anagrafe del comune i registri di morte di quell’anno, mentre i libri delle parrocchie di Gaeta medievale sono confluiti nell’archivio della Cattedrale.
Nel Mortuorum Liber della oggi soppressa parrocchia di Santa Lucia (1719 - 1877) è presente un’addenda relativa ai bambini (1753 - 1880): il parroco Antonio Giordano registra che il 13 marzo 1861 “Joseph Conte” di anni 4, nell’abitazione del padre, rese l’anima a Dio. La discrepanza di data tra il documento d’archivio e l’iscrizione sulla teca si risolve attraverso un ripensamento di colui che ha dipinto il testo sulla piccola bara, infatti sono ben evidenti le correzioni: sotto la parola “FEBBRAIO” si intravede la parola abrasa “MARZO”. Un altro refuso nell’epigrafe è l’accento sulla E dipinto per errore.
Non sappiamo se il citato corpicino mummificato fosse di Peppino Conte, ma probabilmente se nella teca fosse stato sostituito il defunto, avrebbero provveduto a modificarne le generalità sul coperchio.
Le motivazioni per cui questo bambino sia stato mummificato ed esposto all’interno della cappella (contravvenendo alle leggi in vigore) non sono rintracciabili.
Di Giuseppe Conte si riscontra, presso l’anagrafe comunale, l’atto di nascita del 19 marzo 1858, mentre nel Liber Baptizatorum di Santa Lucia (1813 - 1871), al medesimo giorno si legge il battesimo di Joseph Franciscus Maria Conte. Di conseguenza l’indicazione nel registro dei 4 anni di età all’epoca della morte è inesatta.
Facendo riferimento agli atti di archivio, l’epigrafe posta sulla teca presenta un ulteriore errore: Peppino Conte è figlio di Aloysius Vincentius Camillius, probabilmente chiamato in maniera convenzionale con il secondo nome e quindi anche sulla bara viene indicato Vincenzo. Il padre di Peppino viene battezzato, sempre nella Parrocchia di Santa Lucia, il 1 marzo 1825. Dal medesimo registro risulta anche il battesimo della mamma, Aloysia Leonarda Giuseppa Sasso, il 20 dicembre 1831.
I resti mortali esposti nella Terrasanta sono uno spunto di riflessione sulla caducità della vita, sulle vanità terrene e sull’inutilità dell’attaccamento degli uomini alle fattezze esteriori: “Memento mori”.



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